

Per recensire questo disco, “Drown into the Sea of Life”, ho voluto aspettare il momento più consono, perché questo disco in particolare va ascoltato più volte e non di fila per essere compreso. Sto parlando di un disco Doom/Death Metal, composto da una band di Gallarate (Lombardia) che si chiama Tethra, composta da Mike alle pelli, Belfagor alle chitarre, Claudio “Clode” Passeri alla voce e da Giuseppe Aufiero al basso. Tale album viene rilasciato nel 2013 per la “House of Ashes Production”. In via generale posso affermare che il disco si presenta come un buon concentrato di idee innovative per quando riguarda l’approccio al Doom/Death, in quanto dovrete dimenticare atmosfere malinconiche, violini tristi e robe di questo tipo. Qui si basa tutto su riffoni pesanti, ritmiche incalzanti sorrette da un cantato parecchio cupo ed allo stesso tempo potente quando va in growl, ma soprattutto un basso molto personale ed interpretato alla grandissima, da Giuseppe Aufiero. L’album è composto da nove brani, relativamente corti per il genere in quanto si basano molto sull’impatto, per un totale di circa quarantanove minuti. Quindi bando alle chiacchiere ed iniziamo questo viaggio attraverso l’oceano della “Creazione Oscura” con il track-by-track.
“The Great Fall- Intro” come dice anche il titolo del brano, funge da introduzione. Veniamo trasportati tramite un arpeggio dal sapore melodico e misterioso, al primo vero e proprio brano cantato. “Sense of the Night” è il sequel del brano precedente, caratterizzato dall’uso di una linea di basso molto presente, che ha vita propria rispetto a ciò che faranno poi le chitarre. Qui il richiamo ad un Doom metal incalzante è evidente, anche grazie ad una varietà ritmica veramente non indifferente. La voce (sia in clean che in growl) ben si adatta ad ogni contesto creato dai nostri, che ci danno un primo assaggio di quello che è il loro sound. “Drifting Islands” rispetto al precedente pezzo, ricalca sonorità più epiche tipo Candlemass (per esempio), nel quale Clode, canta in un modo parecchio figo su ritmiche molto trascinanti. Tra riffs più lenti e decadenti ed accelerazioni, questo brano è molto incentrato su cambi di ritmiche comunque molto interessanti. Anche qui, il Doom metal è ben fuso con atmosfere più Death metal come da regola. Con “Vortex of Void” invece verremo travolti da una potenza devastante, rispetto ai brani precedenti. Il brano ha un approccio molto più Death del previsto, con solo qualche riferimento sporadico al Doom, ed è cosa buona in quanto almeno c’è più varietà nell’ascolto. Anche in questa situazione Il cantato è ottimale, in quasi tutta la durata del pezzo.
Siamo arrivati al quinto brano “Drown into the Sea of Life”, ossia anche uno dei miei preferiti del disco. In questo pezzo, i nostri torneranno sullo stile di Drifting Islands, ovvero quel doom metal incalzante e travolgente con Clode che esalta ogni situazione proposta nel pezzo. Qui avremo dei riff di stampo più Epic Doom misti a sezioni più spedite come in “Sense of The Night” ma in un contesto più vario. La sesta traccia “The Underworld – Interlude” funge da introduzione al brano successivo. Codesta traccia in particolare però, è cantata da Clode in pulito…come una dolce ninna nanna, per intenderci. Per poi arrivare finalmente alla title-track “Ocean of Dark Creation”, brano che inizia con un riff degno del miglior doom metal. Dopo di che, tutti gli strumenti si alleano per creare un muro sonoro possente e devastante. In un attimo, sentirete il growl di Clode sorreggere un buon lavoro ritmico per niente scontato, arricchito dalle linee di basso originali e melodiche di Giuseppe. Un cambio di tempo, altri riff sempre incalzanti e convincenti che piano piano vi trascineranno in un vortice di epicità e oscurità, ma senza essere troppo invadenti. Questa è la capacità del gruppo, di creare un buon connubio tra sonorità di certo non per tutti, con atmosfere più accessibili. Passiamo alla penultima traccia “Ode to a Hanged Man”, brano dall’introduzione molto particolare, decisamente fuori dagli standard per il genere. Dopo l’introduzione, abbiamo una sezione ritmica dal sapore epico e cavalleresco, sulla quale il growl di Clode si scaglia con tutta la sua ferocia. Ed in realtà il brano prosegue più o meno su questa scia, molto interessante l’outro a dire il vero.
“End of the River” è anche la fine del disco, quindi siamo alla chiusura e torniamo sullo stile di Drifting Islands, per quanto riguarda il concepimento del brano. Abbiamo Clode che canta in growl, sui dei riff tipicamente doom metal; dopo di ciò, il ritornello è a regola d’arte. Voce in pulito, accompagnato da una voce femminile, su degli accordi di chitarra distorti resi melodici da alcuni riffs di sottofondo. Avremo un cambio di tempo, ed un breakdown sul quale Clode usa il growl; è il momento headbang per definizione all’interno del brano, poiché dopo i nostri rallentano per dare più enfasi al basso. Dopo questa sezione rallentata, il gruppo ritorna sulla strofa e sul ritornello (ripeto: la capacità del gruppo è quella di fondere il doom metal, con atmosfere più easy). Dopo l’ultimo ritornello, avremo un cambio di tempo ed un altro riff sul quale Clode narra il termine di questo viaggio, attraverso le note decadenti e malinconiche emanate dalle chitarre doom di questo progetto.
In definitiva posso affermare che anche a distanza di qualche anno dall’uscita di questo disco, ancora rimane invariato il mio giudizio sulla band (nonostante vari cambi di line-up, che tra l’altro ha rilasciato una cover di “Solitude” dei Candlemass da non molto tempo). La band è preparata, le idee ci sono state per questo disco, spero ci siano per un altro disco. E’ una delle pochissime doom/death band che seguo, tutt’ora, e sono Italiani. Consigliati a chiunque voglia sentire un bel disco in santa pace (è proprio il caso di dirlo!).
TRACKLIST:
1)The Great Fall-Intro
2)Sense of The Night
3)Drifting Islands
4)Vortex of Void
5)Drown into the Sea of Life
6)The Underworld – Interlude
7)Ocean of Dark Creation
8)Ode to a Hanged Man
9)End of the River
By Matteo DoomMaster Perazzoni
VOTO: 85/100

Line up: Matteo Gruppi - All instruments
One mand band da Piacenza, “Il Vuoto” è un progetto di Matteo Gruppi (le informazioni su questa entità musicale sono quasi nulle) orientato verso il Funeral Doom con alcuni, interessanti rimandi al Drone. I demo all’attivo sono due, entrambi datati 2015, prima di questo full-length intitolato "Weakness", anch’esso uscito nello medesimo anno. Le influenze del gruppo sono costituite da band come Earth, Monumentum, Angelic Process, Nortt, Shape Of Despair e Mournful Congregation; nonostante questo, l’impronta personale è ampiamente presente, pertanto “Il Vuoto” (ed in particolare, essendo l’argomento in questione, l’album “Weakness”) non risulta un banale e sterile tentativo di copiare gruppi più blasonati e di maggior esperienza, bensì una creatura artistica dotata di vita propria decisamente autonoma.
Il primo pezzo, “And Night Devours Me”, è una traccia che inizia con un’intro di piano di lunghezza considerevole; basso, batteria e le due chitarre entrano in scena con riff molto melodici con diverse venature malinconiche e tristi, una caratteristica che sarà presente in gran parte del disco. I riff si intersecano piacevolmente tra loro, creando un tessuto sonoro delicato in grado di raggiungere presto il cuore dell’ascoltatore. La voce (dell’ospite fisso Jurre Timmers degli Algos, che presterà le proprie corde vocali alla one man band) è molto bassa e distante, tuttavia udibile, portatrice di ulteriore atmosfera, abile nel ritagliarsi il proprio spazio senza essere invadente. Lo scroscio di pioggia, presente appena oltre la metà ed alla fine del pezzo, unito ai cori della seconda parte del brano, dimostra la capacità tutt’altro che trascurabile dell’artista di creare un suono in grado di penetrare dolcemente nelle menti degli uditori. “The Harvest” si avvicina al Drone a causa della maggiore distorsione della chitarra in alcuni momenti del pezzo, spesso intersecando un suono acuto e distorto ad una melodia della seconda chitarra ben più distesa, creando una sorta di dualismo tra sonorità più cupe e suoni più dolci, anche grazie al contributo di inserti elettronici e di linee vocali più sinistre ed alterate.
“Sea Of Emptiness” presenta la medesima alternanza tra suoni distorti e melodie più aggraziate; nella seconda metà del brano due riff molto calmi ed evocativi di chitarra si intersecano tra loro, senza sopraffarsi, di cui uno più solido, quasi dotato di funzione “ritmica”. Lo sciabordio delle onde marine conclude il pezzo. “And Night Took Her” è una gemma di quasi due minuti, un duetto di strumenti (pianoforte e violino) dalle sonorità dolci e malinconiche. Il pianoforte sostiene una struggente melodia di violino; il brano è uno di quelli maggiormente riusciti dell’intero album. “Through Mirrors I Saw The Ghost Of Me” presenta anch’essa melodie e distorsioni alternate; l’abilità del musicista è data dalla grande varietà di riff e soluzioni artistiche ch’egli è in grado di combinare, ogni volta in maniera diversa tra loro. “I, The Essence Of Nothingness”, lungo pezzo di dieci minuti circa, dai riff a tratti quasi mesti, introdotto da un lontano sciabordio di onde marine e da due rintocchi di campane, con un ancor più distante amalgama di rumori non ben definiti, quasi un vociare di esseri umani. Il brano è un viaggio nell’universo Funeral Doom; ottimamente eseguito, esso risulta uno dei punti massimi dell’intero album. “Closure XVII” è un lungo brano di chiusura atmosferico, con piano e violino protagonisti; il tutto termina con uno scroscio di pioggia rilassante e calmo, perfetta conclusione di un ottimo album.
Il progetto “Il Vuoto” è decisamente interessante, poiché dimostra l’abilità di questo musicista nel comporre ottimo Funeral Doom; troppo occupati a guardare all’estero, spesso dimentichiamo quante valide realtà musicali siano presenti sul nostro suolo, spesso striscianti in un underground ricchissimo di proposte, alcune delle quali interessanti, altre decisamente meno, a seconda dei nostri gusti personali.
Tracklist:
01. And Night Devours Me
02. The Harvest
03. Sea Of Emptiness
04. And Night Took Her
05. Through Mirrors I Saw The Ghost Of Me
06. I, The Essence Of Nothingness
07. Closure XVII
By Federico Ziegenmond
Voto: 80/100

Gli Ancient Cult sono un gruppo emiliano originario di Bologna il cui scopo principale è riproporre i dettami del puro Heavy Rock; formato da quattro componenti ovvero Dave J. Vargar "The Minister of Magic" alla voce, Frank Van Hell "The Minstrel" alla chitarra, CC Saviour "The Left Hand"che si occupa del basso ed infine Marcy Free Romana "The Maiden of the Stone" alla batteria e percussioni. La band sente molto l’influenza di mostri sacri del passato come Black Sabbath e Led Zeppelin, ma anche Jethro Tull, Deep Purple e Scorpions, di conseguenza il sound che verrà proposto in questo EP “Goddes Of Solitude” , Composta da cinque tracce per una durata complessiva di 33 minuti circa, sarà pregno di una componente Old Style veramente molto forte, con una particolare attenzione nei confronti della band di Ozzy e Iommi, il cosiddetto Doom Metal che vide i primi albori con questi assoluti protagonisti, infatti lo spartito musicale virerà deciso verso ritmi cadenzati e lugubri, come a rispecchiare l’idea di riportare in auge il Vecchio Culto che ha preso forma e vita al termine degli anni ’60.
L’EP parte proprio con la titletrack “Goddes OF Solitude”, un delicato arpeggio della sei corde accompagnato da un basso in versione dolce danno il via a questa song, i due poi iniziano una leggera accelerata, quasi come ad andare al piccolo trotto, e poi sbam! Ecco che la sei corde si indurisce, i suoi riff diventano crudi, rudi e sporchi; la batteria di conseguenza entra decisa e fa sentire la sua presenza, questi momenti di cattiveria e bontà si alternano fino ad arrivare all’assolo spartiacque che da quel classico tocco di vitalità alla traccia, e oltre a questo la accompagnerà con decisione alla sua conclusione. La voce è rauca ma allo stesso tempo precisa e puntale, non da’ l’impressione comunque di essere l’elemento principe della band. E’ la batteria invece con un tocco del piatto a dare il via a “Vagabonds of the Ancient World”, canzone che parte decisamente più diretta, la chitarra entra prepotentemente in scena, l’addetto alle pelli fa vibrare i timpani del suo strumento andandoci giù pesante, da sottolineare il basso, che con il suo borbottio di sottofondo rende in qualche modo frizzante un mood che nonostante la sua potenza risulta sempre lugubre e tetro. Ed è proprio la parte della cinque corde che mi affascina di più in questa traccia, quando nel bel mezzo della song decide di cambiare ritmo spronando i compari ad accelerare, tant’è che la sei corde tira fuori un assolo degno di nota, quasi a voler dire: “Qui comando io!”. Terza traccia è “The Gatering”, dove si nota la versatilità e la voglia di variare di questa band, questo viene dimostrato dal fatto che è il basso a prendere inizialmente le redini del comando introducendo appunto questo nuovo brano. La canzone poi prosegue sui canoni dettati da ritmi pachidermici e pesanti, dove la riffage è sempre lugubre e funeraria anche se impreziosita da questi accenti posti dalla cinque corde e dai molteplici assoli di chitarra che diventano col proseguo della traccia sempre più importanti ed assumo il ruolo di assoluto protagonista, la band dimostra di voler dare maggior visibilità alla parte strumentale, lasciando alla voce pochi sprazzi, quest’ultima risulta sempre acida e quasi stonata, ma perfettamente coordinata al sound proposto.
Eccoci arrivati a “Yule’s Day” che si apre con un rombo di tuono in sottofondo, quasi a voler sottolineare l’incombere di una violenta tempesta, ed è la chitarra a farla esplodere, anche se non in maniera prepotente, ma piuttosto con un riff degno del miglior incantatore di serpenti, sempre supportata dal fedele basso che la segue in ogni battaglia. Tutto questo fino all’ingresso poderoso della batteria, la quale viene pestata violentemente dal suo addetto, anche se questo strumento non offre mai qualcosa di particolare è sempre preciso nei suoi interventi ed offre un contributo corposo all’insieme. Da sottolineare ancora i deliziosi assoli di chitarra, sempre a dare quel tocco di paura al contesto, e la song si chiude come si è aperta, con la tempesta di sottofondo… Ultima traccia di questo EP è una cover degli UFO, band britannica che risulta fra le preferite degli emiliani, la traccia proposta è “Rock Bottom” estratta dall’album Phenomenon del 1974, che vedeva fra gli altri la presenza del talentuoso Michael Schenker (ex Scorpions). Il brano in origine era la rappresentazione vero e proprio dell’Hard & Heavy Rock che stava incalzando in quel periodo. Ora vediamo come la trattano i nostri: l’inizio è marcato e deciso, il riff di chitarra viene indurito ed il basso risulta abbassato di tonalità, anche se la velocità rimane invariata rispetto alla versione originale, la batteria fornisce la solita solida prova di accompagnamento, e la voce si conferma sugli standard proposti in precedenza. Una cover tutto sommato non male, un tributo al culto dell’ Hard & Heavy che la band tanto ama!
Tirando le somme si può dire tranquillamente di essere davanti ad un ottimo lavoro, il sound è preciso e allo stesso tempo tetro, nonostante la scelta di rendere l’ambiente lugubre i nostri riescono a tirar fuori un spartito pulito e senza sbavature, dove si può asserire che le protagoniste indiscusse sono le chitarre, con la sei corde che sfodera assoli a ripetizione, ed il basso che non è utilizzato solo come strumento di accompagnamento ma diventa bensì sempre più importante con l’increscere delle tracce. Un appunto va fatto anche sulla voce, potrebbe non piacere a tutti, perché in alcuni momenti rasenta degli ambienti quasi punkettari, dove la si tira quasi all’urlo indisciplinato, ma essa è perfettamente collocata all’interno dello spartito e dopo qualche ascolto la si apprezzerà sicuramente!
Tracklist :
01. Goddes OF Solitude
02 . Vagabonds of the Ancient World
03 . The Gatering
04 . Yule’s Day
05 . Rock Bottom
By Paso
Voto: 80/100

